La svolta metafisica dalla Vetreria di Beppe Guzzi alle Sindacali livornesi
Di Francesca Cagianelli
Battezzato da Filippo Tommasi Marinetti in coincidenza con la “parentesi della sezione artistica in vetreria nel 1937, dove (…) fu assunto insieme allo scrivente (Voltolino Fontani), a Sircana e al povero Giannoni, per eseguire vetrate artistiche in seta di vetro colorato, ideate da Beppe Guzzi”, Mario Ferretti si impone fin dagli esordi in ambito livornese in virtù di un’“inventiva addirittura vulcanica”.
In effetti Mario Ferretti, nato a Livorno nel 1915, allievo della Scuola d’Arte di Beppe Guzzi, della Scuola Libera di Nudo di Firenze e del corso d’Arte Decorativa a Livorno, esordisce fin dagli anni Trenta con le stigmate di un novecentista, curioso delle novità sironiane e pirandelliane.
Presente alla “II Mostra d’Arte dell’Opera Nazionale Balilla” allestita nelle sale di “Bottega d’Arte” di Livorno nel 1932, con opere quali Agli archi, In Venezia, Verso i monti, Casa rustica, Temporale, Ruscello, Ferretti sembra in effetti a questa data ancora lontano da una indiscussa fede novecentista, se è vero che Bianca Flury Nencini si interroga in catalogo sulle ragioni di un mancato novecentismo tra le fila dei giovani espositori.
La “VI Mostra Sindacale” Livornese del 1934-1935, presieduta da una Commissione composta da Plinio Nomellini, Augusto Gardelli, Giovanni March, Cesare Tarrini, Giovanni Zannacchini, sanciva comunque il consolidamento di una compagine novecentesca nell’ambito delle nuove generazioni artistiche livornesi, che contava su personalità del genere di Giulio Allori, Silvio Bicchi, Laura Bedarida, Mario Borgiotti, Mario Cocchi, Alfredo Giannoni, Guido Guidi, Giulio Guiggi, Beppe Guzzi, Giovanni March, Cesare Tarrini, Ghigo Tommasi, Dino Uberti, Giovanni Zannacchini, e contemporaneamente attestava una stagione evolutiva, in direzione di una sempre più marcata inflessione plastica, per artisti di estrazione più tradizionale, quali Eugenio Carraresi, Carlo Domenici, Cafiero Filippelli, Giulio Ghelarducci, Giovanni Lomi, Renato Natali, Plinio Nomellini, Vittorio Nomellini, Gino Romiti.
Alla “X Mostra Interprovinciale” del Sindacato Toscano di Belle Arti di Firenze del 1938, presieduta da una Commissione di ordinamento composta da Carlo Rivalta, Vieri Torelli, Alberto Caligiani, Eugenio Chiostri, Guido Peyron, Giulio Pierucci, Guido Spadolini, Ascanio Tealdi, l’artista mostrava invece di aver guadagnato alla sua arte una vena di più personale lirismo, cogliendo in Zona industriale il pretesto per un’indagine paesistica di sapore più drammatico.
A celebrare le magnificenze di una Livorno che, proprio come Paolo Zalum riecheggerà più tardi sulle pagine di Bottega d’Arte – “aveva le sue stradacce, zeppe di colore, alla Natali; i suoi luoghi riposti, pieni di sogno, alla Romiti; il suo mare apertissimo, spalancato, alla March; la sua campagna d’intorno, un po’ triste – triste di quella malinconia che, per solo retaggio, ci hanno lasciato gli Etruschi -; i suoi poveri abituri, malamente illuminati da un lume a petrolio, alla Filippelli; i suoi tramonti fantastici, alla Benvenuti, esaltanti sulla curva dell’orizzonte la mirifica potenza del Signore”, giunge nel 1938 la “Mostra della Livorno scomparsa”, dove è presente anche Mario Ferretti.
Già nel 1939, Renato Natali, cogliendo l’occasione introduttiva alla personale dell’artista a “Bottega d’Arte”, si ergeva infatti a mentore degli esordi di due giovani artisti livornesi, Mario Ferretti appunto, e Voltolino Fontani: “i loro lavori – sostiene Natali – sono tutti onestà e il loro rendimento dimostra la battaglia che essi conducono per sprigionare le loro emozioni, ed il resultato ottenuto è lodevolissimo e corrispondente alla calda passione che sinceramente li anima”.
Se nel 1947 Ferretti è presente alla “Mostra di Pittura Italiana Contemporanea” presieduta da una Commissione di Accettazione delle opere e di Assegnazione dei Premi, costituita da Matteo Marangoni (Presidente), Felice Casorati, Virgilio Guzzi, Mino Rosi, Piero Sanpaolesi, Giorgio Vigni, Gianni Vagnetti, e nel 1948 partecipa alla “Rassegna Nazionale di Arti Figurative” promossa dall’Esposizione Nazionale Quadriennale d’Arte di Roma, il cui Comitato organizzatore accoglieva nominativi quali Aldo Carpi, Felice Casorati, Giovanni Colacicchi, Renato Guttuso, Carlo Levi, Marino Marini, Roberto Melli, Giorgio Morandi, nello stesso 1948 torna sul palcoscenico livornese con la personale allestita nelle sale di “Bottega d’Arte”, insieme con Voltolino Fontani, Giulio Guiggi e Osvaldo Peruzzi.
Nel 1955 Ferretti compare in tandem con Ferdinando Chevrier in un’esposizione nelle sale della “Galleria Giraldi” di Livorno, in occasione della quale Guido Favati saluta con fervore l’exploit astrattista di Ferretti, battezzato quale effettivo caposcuola delle avanguardie livornesi a partire dagli anni Trenta, se è vero che “tutto il gruppo dei moderni pittori livornesi è stato in certo modo trascinato da lui, fin dagli anni precedenti all’ultima guerra mondiale”.
Travolto nel dopoguerra da indecifrabili inquietudini, tanto esistenziali quanto professionali, e rimasto quindi in una fase, pur limitata, di resoluta inoperosità, Ferretti ricompariva infatti al pubblico livornese da una parte con una serie di nature morte metafisiche più intimamente legate al corso della sua precedente produzione, dall’altra con “esperimenti di avvicinamento a forme astratte”, che non tralasciano la consueta opulenza cromatica.