Conferenza di Francesca Cagianelli
Famedio di Montenero, Sabato 8 giugno 2007
La stagione ottocentesca a Livorno, coniugata come vedremo, secondo ardori risorgimentali e intuizioni veriste, corre dal furor guerraziano alla parabola innanzitutto morale di Giovanni Fattori, traendo la sua preistoria proprio dai destini di Paolo Emilio Demi.
L’abbattimento del Leopoldo II di quest’ultimo, vera “statua-destino” – come la definirà nel 1933 Gino Saviotti su “Liburni Civitas” – citata tra l’altro proprio in una lettera di Fattori a Leopoldo Cipriani del 1849 – segna a Livorno uno dei più epocali spartiacque artistici e insieme politici, che verrà a coincidere per lo scultore con una parabola critica di resurrezione, a partire dal numero unico edito da Belforte nel 1898, proseguendo quindi con la nota summa Livorno nell’Ottocento di Guido Menasci, e culminante con gli assunti di Ugo Ojetti che nel 1920, sul “Corriere della Sera”, celebrava la Madre Educatrice nei termini di: “tra le più belle e pure e umane sculture del secolo scorso, non in Italia soltanto”.
Motivo chiave di tale rivalutazione diveniva un’accertata vocazione romantica, contigua a quella di Lorenzo Bartolini, di contro a chi – in sede critica – preferiva attardarsi su quel presunto neoclassicismo finora ribadito da ogni parte.
Anzi la conclusione di Saviotti suona come l’ennesima conferma di una sostanziale latitanza da parte della compagine critica nostrana, all’origine di tanta sfortuna delle innumerevoli emergenze culturali ed artistiche italiane: “Un grande artista italiano dell’Ottocento, misconosciuto. Non faccia meraviglia un tal fatto; esso è tutt’altro che unico, nella pittura e scultura del secolo scorso. Per molto tempo, la storia della nostra arte, nel secolo in cui eravamo poveri e divisi e la luce di Francia abbagliava le pupille di tutti, fu raccontata dagli stranieri”.
Chi doveva consolidare in sede livornese un indirizzo artistico più definitivamente alternativo al formulario classico sostenuto in sede di accademia, fu Enrico Pollastrini che, in virtù dello sprone della tradizione rinascimentale, fu in grado di tentare soluzioni espressive di suggestiva innovazione rispetto alla lezione di Pietro Benvenuti, prediligendo, fin dalla fase giovanile, piuttosto il romanticismo storico di Giuseppe Bezzuoli.
E che stavolta fosse la rivoluzionaria passione politica ad accendere tanta determinazione espressiva lo si intuisce per Pollastrini dagli aneddoti relativi all’elaborazione della fisionomia di Lorenzino dei Medici nell’opera La morte del Duca Alessandro de’ Medici (1840), di cui proprio Francesco Domenico Guerrazzi doveva sollecitarne la committenza presso Niccolò Puccini: elaborazione quest’ultima che sarebbe culminata, secondo la versione di Paganucci, nella sostituzione dell’identità di Lorenzino de’ Medici con quella dello stesso artista ritratto da Giuseppe Sabatelli. Sono frangenti che non possono essere letti diversamente dalla genesi de L’ultima ora di Francesco Ferrucci (1843), in quanto, come indicava lo stesso Paganucci, “il fanatico repubblicano era per lui, in quel momento supremo, non un uomo che moriva, ma un essere tutto spirituale, cui non mancava che l’aureola intorno al capo”.
Ma è con Gli esuli di Siena, consegnato alla città di Livorno nel 1856, di intonazione patriottica e anti-granducale, che Pollastrini conquistava fama nazionale, mostrando di saper elaborare tensioni patetiche e modulazioni tonali senza profittare di troppo abusati schemi accademici, finchè, anche solo con opere quali l’incompiuta I Novellatori del Decamerone, conservata presso il Museo Civico Giovanni Fattori, la sua carriera potrà dirsi scampata agli argini della pittura di storia per approdare a quel filone ingriste di diffusione europea, che trovava riferimenti più estesi nella Mattinata fiorentina di Domenico Morelli, e un caposaldo assoluto in Una giornata di domenica; scena fiorentina del XV secolo di Auguste Gendron: problematiche da me affrontate nel quadro della pionieristica mostra: In Toscana dopo Degas. Dal sogno medioevale alla città moderna, in cui il dipinto di Pollastrini riconduceva a Livorno le fila di un linguaggio francesizzante di più vasta pertinenza.
Le sorti dello sbilanciato rapporto Italia-Francia, così lamentate da Saviotti in merito all’oblio e al fraintendimento di scultori come Demi, debbono quindi ricondursi inevitabilmente anche allo stesso Pollastrini, per essere comunque ribaltate solo grazie al caso Fattori, che proprio alla pittura di storia riuscirà a rivolgersi con animo rinnovato, al punto che critici quali Romualdo Pàntini, già nel 1902, a proposito delle acqueforti militari esposte alla Promotrice fiorentina, non esiteranno ad inquadrarle come la vera occasione per l’artista di manifestare “quel vigore di disegno e di composizione che ha fatto di lui il più alto pittore militare nella seconda metà del secolo”.
E sono senz’altro convinzioni politiche e vocazione militare a muovere Fattori ai suoi promettenti esordi, in assoluta sintonia con il credo di Francesco Domenico Guerrazzi, se è vero che in una bellissima lettera al noto critico Diego Martelli del 1877, tanta era viva in lui la memoria della scrittura di Guerrazzi, dal rievocarne l’immediatezza narrativa, che gli sovviene al cospetto della nuda sala del Conte Clary: “entrai – ricorda l’artista condottovi dal principe Imperiale Bonaparte – mi pareva di leggere il Guerrazzi quando descrive Malatesta – immagina una stanza nuda con pareti scure, uno scrittoio con molte carte, e un uomo pallido, scarno, con una barba grigia, ispida, con un berretto dei bassi tempi a pane di zucchero verde, una lunga cappa nera, e fasciate le gambe da una gran coperta, un immenso camino acceso dietro le sue spalle, qualche mobile nero, ecco la scena”: in queste parole l’insuperabile verità di ambienti decrepiti, partecipi di esistenze miserevoli, ma comunque protette dal rassicurante calore del focolare domestico, che proprio grazie al movimento culturale europeo condiviso negli anni Sessanta a Livorno da letterati ed artisti, coincide con una stagione di indubbio rinnovamento creativo.
Non è un caso che in una lettera ad Elisa Ciacchi del 1904 Fattori si esprima in merito alla suggestione delle Feste del Centenario di Guerrazzi e in una lettera ad Anna Franchi dello stesso anno, nell’atto di professare la propria ribellione alla cultura tradizionale, ribadisca la stretta contiguità tra la propria formazione e i romanzi guerrazziani.
Ed è proprio nell’epistolario fattoriano che si conservano altre preziose testimonianze di una passione patria che è poi quella attestata nel nostro Famedio: in una lettera del 1847 l’artista, mentre dichiara perentoriamente di voler parlare della sua patria, non esita a rivolgere il pensiero a Carlo Bini, a cinque anni dalla morte, avvenuta secondo Fattori in tempo utile “per vedere (…) schernite quelle celesti massime che Natura e Dio gli avevano impresse nel cuore”. Nel rievocarne quindi la traslazione della salma nel cimitero di Salviano, prima di essere definitivamente trasportata nel Famedio, l’artista cita accoratamente tanto il discorso celebrativo, quanto l’inno di Antonio Mangini, definito “bellissimo”, mentre tutta la sua partecipazione emotiva traspare nel commento finale “Giojerà l’anima di quel celeste e darà una benedizione a noi suoi fratelli che non la dimenticheremo mai!!…la pagina della storia certo noterà quel giorno e il di lui nome”.
Ancora nel 1890 Fattori confidava all’amico Diego Martelli di aver ritrovato l’entusiasmo artistico di trent’anni fa, ovvero dell’epoca risorgimentale: una professione d’arte che nell’osservanza della lezione dell’antico attinge l’energia per ripudiare l’accademia, e in omaggio alla quale si sfida un destino di eterna povertà: in sostanza una parabola esemplare quella fattoriana, che proprio nella contrapposizione con il più fortunato Antonio Ciseri, rende atto anche e soprattutto della moralità dell’insegnamento elargito a tutta la generazione artistica successiva: un insegnamento programmaticamente destinato ai poveri e latore di miseria.
E in tutto questo è proprio l’orgoglio per la propria vocazione di artista militare che Fattori rivendica di fronte al Ministero. Prosegue infatti: “Il Ministero sa che io sono artista per cose militari, sa che avrei potuto illustrare qualche fatto della splendida vita di Garibaldi, vi era il fatto di Dogali, l’abbozzai – (ricordi?) – il soggetto era parevano allineati… un giorno guardavo quei bianchi cadaveri che aveva schizzati nel mio entusiamo artistico e Italiano…presi della terra rosso, e acqua ragia e la passai di sopra…a che serve? Dissi tra me!”: in realtà il Ministro Boselli affidò nel 1880 la commissione del dipinto a Michele Cammarano, a conferma di un’endemica sfortuna di Fattori rispetto all’ufficialità della committenza statale, che allora si tradusse in una parabola di fatale marginalità, comunque destinata a divenire la ragione primaria della rivalutazione attuale nel quadro del nostro Ottocento pittorico.
Rispetto alla verve politica guerrazziana e alla silenziosa epica militare fattoriana, attestata soprattutto dalle incisioni, Giovanni Marradi doveva impugnare l’epopea garibaldina in direzione più elegiaca e, nel 1932 – il cosiddetto “anno garibaldino” – quest’ultimo appare, nella compagine degli interpreti dell’epopea risorgimentale, come colui che, proprio per aver saputo rinunciare al registro romantico delle canzoni patriottiche, in ossequio ad una tradizione classica, forse doveva restare ancora in attesa di una meritoria promozione su scala nazionale.
E’ Alfredo Algardi a rievocare in questa data su “Liburni Civitas” il valore delle rapsodie garibaldine del poeta, in una rilettura efficace che nel Garibaldi di Marradi, rispetto a quello guerrazziano, di tempra squisitamente celebrativa ed eroica, de L’Assedio di Roma, “invitto sempre, vinto una volta”, intravede connotati più lirici, così come ci appare in una delle rapsodie: “morto come un poeta contemplativo commosso dal canto di due capinere”.
Dopo le pagine eroiche di Abba e quelle politiche di Carducci, le rapsodie di Marradi, di fortuna controversa tra i critici, rivendicano comunque una loro popolarità, senza contare che l’icastico linguaggio marradiano profonde immagini di lirica espressività, come nel caso soprattutto dell’ultima delle quinte rapsodie, Caprera, dove l’indugio funebre assume confini illimitati nella sintetica allusione alla morte di Garibaldi: “entrava con l’aperta aria cilestra/ l’ultimo raggio; a onda fresca e piena/ entrava odor di mare e di ginestra;/ e via con la sua grande anima tirrena/ l’anima eroica si confuse”: anche l’inevitabile lutto universale si insaporisce poeticamente in virtù di quel fuggevole accenno, tipicamente marradiano, all’anima tirrena. Doveva essere questa attesissima simbiosi tra Natura ed eroismo, finalmente ricongiunti in un estremo bisogno di universalità, a consentire al poeta di superare le secche delle canzoni celebrative ed aspirare ad una più universale considerazione della sua tempra poetica.
E se scandiscono la metà del XIX secolo, sull’orlo tra passione risorgimentale e risorgente culto shakespeariano, non solo in Italia, ma anche in Europa, personalità quali Ernesto Rossi, all’alba del Novecento Gabriele D’Annunzio riconosceva ad un altro attore livornese, ricordato nel Famedio, Gustavo Salvini, come il suo “largo gesto eschileo” avesse “spalancato una porta alla Poesia”.
Le sorti di tali attori restano nel famedio intrecciate indissolubilmente con quelle di commediografi quali Dario Niccodemi e musicisti quali Pietro Mascagni a confermarne il contributo – per quanto in sedi diverse – all’evoluzione delle vicende teatrali italiane. Non stupisce in tal senso il resoconto che vuole Niccodemi in piedi sopra un sedile applaudire freneticamente durante la recitazione di Salvini sul Palatino nell’Alcesti di Euripide, mentre asserisce come l’attore fosse giunto a rivestire il primato nell’ambito delle rappresentazioni degli spettacoli classici all’aperto, in quanto “crea con la sola sua presenza, l’ambiente e il clima necessari alla grandezza del Mito rappresentato”; così come è da ritenersi conferma di una parabola teatrale condivisa, la questione del Nerone mascagnano, opera considerata un sogno dallo stesso musicista, che l’aveva concepita sull’onda della densa suggestione della tragedia di Pietro Cossa recitata proprio da Ernesto Rossi a Livorno.
Occorrerà attendere il 1951, riguardo a Pietro Mascagni, per l’“atto riparatorio, dopo un atto ingiusto”, voluto da Gianandrea Gavazzeni nell’insuperata analisi del teatro mascagnano – si parla del saggio Il teatro di Mascagni nel suo tempo e nel nostro, riconosciuto tale anche da Guido Salvetti nell’unica pubblicazione, scientificamente autorevole – prescindendo quindi dagli innumerevoli fiumi di inchiostro sgorgati in sede livornese sull’argomento – che recentemente sia stata dedicata al musicista, ovvero il Mascagni pubblicato da Electa nel 1984 con contributi di Claudio Casini, Franca Cella, Fiamma Nicolodi, Guido Salvetti.
Ricordiamo che nel giugno 1951, in occasione delle onoranze a Mascagni, Gavazzeni era invitato a dirigere con il Complesso del Teatro dell’Opera di Roma alcune rappresentazioni dell’Iris, ed è in tali frangenti che decide di stilare un bilancio di credito nazionale riguardo al teatro mascagnano.
E’ quindi con le parole di Gavazzeni che si coglie l’occasione di rievocare liricamente l’evento del ritorno della salma del musicista a Montenero: “Possiamo amare tenacemente – come io li amo – i poeti della difficoltà linguistica, della deformazione figurativa, della enigmatica ricerca musicale, e ciò nonostante ancora trasalire al ricordo d’alcuni momenti estremi di quelle celebrazioni: quando alle folate di libeccio dischiomanti gli oleandri e le tamerici di Antignano e dell’Ardenza, all’ora di un tramonto inobliabile, il feretro mascagnano saliva il colle di Montenero. E il mare era quello di Shelley, e i pini gli stessi che segnano il limite della Maremma di Giovanni Fattori, e sul fianco del colle abbagliavano di marmoreo candore i classici resti della villa di Byron. Ogni casolare pavesato, ogni finestra gremita, e le straducole formicolanti, e tutti i gonfaloni dei comuni toscani che salivano ondeggiando. Una volta tanto: non doveva passare né un re, né un capo di governo, né un capo di partito; passavano i poveri resti di un uomo che aveva scritto opere per il teatro; di quel teatro specchio di vita, esaltazione di vita, perfezionamento di vita”.
Dunque le giornate livornesi diventavano un pretesto per Gavazzeni per un bilancio mascagnano. Era lo stessa scadenza cinquantenaria del secolo ad esigere un’autorevole e più definitiva revisione. Recuperando quindi certi accenti di Giannotto Bastianelli e del suo studio mascagnano del 1910, che nell’ambito dell’opera europea del primo 900 intendeva fissare i limiti ma anche l’effettiva vocazione del livornese, cioè “quel carattere di opera popolare, di vocalità popolare, così legati ai caratteri stessi della vita italiana, del suo costume, delle sue prospettive borghigiane, rusticane, provinciali”, Gavazzeni concludeva, con accenti dichiaratamente paradossali, in sintonia con il raffinato vociano, che le melodie mascagnane venivano a rappresentare l’unico efficace antidoto per un possibile rinnovamento contro le estenuate raffinatezze di Debussy e gli spasimi di Strauss.
Ne era ragione primaria la ribellione verso una valutazione eccessivamente monolitica del verismo mascagnano: lo scacco che Gavazzeni attribuiva all’Iris nei riguardi dei detrattori del verismo mascagnano significava l’ennesima sorpresa destata da una personalità musicale irriducibile, impreziosita dalle indubbie tracce di impressionismi e simbolismi europei: ed è così che dopo la stagione veristica inaugurata con Cavalleria Rusticana, Gavazzeni si indagava di fornire testimonianze di quella frenesia innovativa, che doveva preludere all’ennesima rivelazione delle Maschere, opera che indubbiamente si inserisce – ed è la conclusione di Gavazzeni – come iniziativa originale nel teatro del suo tempo proprio per la capacità di rielaborare l’antica e imperitura tradizione della Commedia dell’Arte.
E se nell’ambito della revisione della storia della musica europea già negli anni Cinquanta Mascagni poteva annoverarsi nuovamente tra i protagonisti riconosciuti di un processo innovativo e modernizzante, in sede artistica i processi di valutazione storica sono purtoppo avanzati con estrema lentezza e unilateralità, venendo a mancare episodi di analitica indagine e corretta valutazione alla stregua di Gavazzeni.
Certamente la parabola internazionale di Amedeo Modigliani – e non è qui la sede per dilungarsi sulle vicende di una personalità artistica universalmente accreditata – ha finito con l’offuscare personaggi di respiro altrettanto europeo quali Mario Puccini, al quale va tutta la nostra predilezione per una grandezza sicuramente certificata in sede labronica, ma che non può davvero appagare rispetto ad un contesto di riferimenti più ampi.
Senza ripetere i notissimi passaggi del trasferimento al Famedio a seguito dell’impegno del Gruppo Labronico, vorremmo segnalare come il contributo, pur autorevole, di Mario Tinti del 1931 in direzione di un inquadramento europeo debba ancora, al di là delle recenti e ponderose monografie pubblicate – si parla sia di quella curata da Andrea Baboni nel 1989, sia di quella di Raffaele Monti del 1992 – trovare adeguati prosecutori nella nostra storiografia più recente: “Puccini sta a Fattori come Van Gogh sta a Cézanne; – concludeva Tinti – ed entrambi i due coloristi Puccini e Van Gogh, tramutano in masse fluide e vibratili i serrati e compatti blocchi dei due costruttori”.
Nonostante il serrato parallelo con il maestro francese, era lo stesso Tinti ad avvalorare quell’assurdo critico, tanto ahimè seguito perfino dalla storiografia più aggiornata dell’oggi, che voleva Puccini, nonostante i ripetuti soggiorni francesi a Digne, vergine rispetto a qualsivoglia impatto visivo o critico con l’avanguardia cezanniana, assurdo critico che lo stesso Lloyd, nelle sue pur godibili ed emblematiche memorie, accoglieva con una qualche astuzia retrospettiva: l’episodio, ma sarebbe più corretto parlare di aneddoto, della visita del naïf livornese – con i suoi polsini sfondati e la sciarpa a fiocco, “di quelle che si appiccicano con la molla” – , lui “abituato a mangiare al Falchetto”, di fronte a un raffinato intellettuale quale il fiorentino Gustavo Sforni, nella sua “reggia da Regina Di Saba”, si mostra funzionale, piuttosto che ad una incontrovertibile testimonianza storica, ad incrociare due stereotipi culturali, non ancora sfatati da un’analisi più attuale: la dimessa integrità del rustico provinciale di contro all’estenuata cultura del dandy cosmopolita.
Ecco che lo zelo di Sforni nel sottoporre l’artista ad un tour de force di aggiornamento in merito alla nutrita serie di grandi fotografie di opere di Van Gogh e di Cezanne e la conseguente – ma aggiungerei anche tutta livornese, ovvero smaliziata e provocatoria – reazione di Puccini a suon di sbadigli, sembra corrispondere, oggi, più che ad effettiva verità di ragguaglio storico, ad aneddoto moraleggiante circa la presunta autonomia di ispirazione di Puccini rispetto ai colleghi francesi: sonora blague, ancora tutta da sfrondare con dovizia di ragionamenti storico-critici, riguardo ad un’elaborazione pittorica che – come da tempo si è voluto testimoniare nell’innnovativa impresa espositiva curata dalla sottoscritta: L’officina del colore. La diffusione del Fauvisme in Toscana – smentisce ogni possibile autodidattismo di Puccini, per ricongiungerlo meritatamente alla più vasta comunità artistica internazionale.
Sorte non dissimile – ed è qui che si intende giungere alle conclusioni relative alla stagione novecentesca livornese attestata nel Famedio – nel senso di un mancato inquadramento nell’ambito di coordinate più vaste, spetta ai due protagonisti della letteratura e del teatro livornese, rispettivamente Giosuè Borsi e Dario Niccodemi, il primo nell’ambito della poesia e della critica italiana, il secondo nell’ambito della letteratura teatrale europea.
Una carriera breve e tormentata, quella di Giosuè Borsi, che ancora attende una rilettura a tutto tondo da parte della storiografia critica attuale, rilettura che finalmente consenta di indagare gli esiti poetici non disgiuntamente dalla statura intellettuale e dalla passione sacrificale e profetica che lo sostennero e motivarono nell’impegno politico vissuto fino alla consunzione in preda ad un titanico furor sacrificale: atteggiamento certamente meritorio e di eccezione nella Livorno tra il primo e e il secondo decenio del Novecento.
Si dovrà allora rileggere quelle tante pagine di cronaca mondana pubblicate sul Tirreno sotto lo pseudonimo di “Corallina” e finora sfuggite ai più, almeno in relazione alla sostanza culturale assolutamente elitaria e di avanguardia, per avere un saggio della capacità di intuizione di un destino cosmopolita di Livorno, città selvaggia, scossa dal libeccio, ma soggetta a tensioni che avrebbero potuto indirizzarne diversamente il corso futuro, e che invece costituiscono soltanto una passeggera e sporadica scossa nella lontana alba del Novecento. Fedeli alla Livorno di Carlo Bini, Francesco Domenico Guerrazzi e Giovanni Fattori appaiono dunque a Borsi i giovani del Caffè Bardi: da Natali a Michelozzi, da Ghelarducci a Romiti, da Baracchini-Caputi appunto a Puccini: una Livorno, come la definisce Borsi nel 1912, in termini di innegabile titanismo, che “è una città giovane e fortissima, destinata alla fortuna e all’opulenza, che sarà tanto più fulgida e solidamente piantata quanto più dure e aspre saranno le prove a cui l’avranno sottoposta le sventure e il malvolere, prove attraverso le quali si conquisterà il posto che il destino riserba a tutti i forti e a tutti i pertinaci”.
L’esaltazione per così dire profetica per i giovani del Caffè Bardi, la comunione quasi sacerdotale con i loro ideali di un’estrema sinistra dell’arte, non coincide quindi per Borsi con un’infatuazione sporadica o arbitraria, ma equivale a tutti gli effetti ad una sincera consanguineità con una stagione privilegiata di avanguardie artistiche che avrebbero potuto connotare il futuro di una Livorno internazionale.
Futuro cui lo stesso Dario Niccodemi aveva sognato di dare il suo contributo, negli stessi anni Dieci, nell’ambito di un medesimo progetto di italianità esportato a Parigi e di cui si coglie traccia nell’emblematico raduno intellettuale che nel 1914 trovava eco sulle cronache del Tirreno: il riferimento è al noto convivio narrato nell’articolo Gabriele D’Annunzio ospite di Dario Niccodemi. Un’eletta riunione di artisti livornesi a Parigi del 12 febbraio 1914; nel suo appartamento di Rue Decourcelle Niccodemi aveva offerto un pranzo intimo ad alcuni artisti italiani, “pauci sed electi”: Gabriele D’Annunzio, Ugo Ojetti, Leonetto Cappiello, Renato Natali.
Ebbene tra i “programmi di lavoro”, le “speranze” e i “sogni” di tali intellettuali ed artisti, di cui gran parte, vorrei sottolineare livornesi – si legge – “soprattutto, si parlò dell’Italia e poiché questo fu il tema favorito, il pranzo assunse il carattere di un convegno – sia pure intimo e raccolto – di italianità”: un’Italia cui Niccodemi, al pari di D’Annuzio e di Ojetti, poteva partecipare, tesaurizzando la prestigiosa tradizione livornese in un processo di aggiornamento europeo; ma di tale progetto oggi rimane traccia solo nel circuito memorialistico del Famedio.