La stagione del piccone demolitore non è tramontata

Matteoni: l’elegante foyer trasformato in ingresso per le rampe del parcheggio, uno scempio.

DARIO MATTEONI

Livorno. Eravamo ormai convinti che la stagione del “piccone demolitore” fosse ormai definitivamente tramontata. Eppure leggendo, proprio sulle pagine di questo giornale (il Tirreno, NdR), la notizia, pubblicata ovviamente con grande rilievo, dell’imminente demolizione del cinema Odeon, forse dobbiamo pensare che ancora nella nostra città la furia della demolizione, della cancellazione delle memoria storica sia ancora attuale. E questo, quando appare ancora calda la questione delle “Acque della Salute”, che peraltro risulta scomparsa dalle cronache cittadine, se non fosse per il recente interesse da parte della magistratura.
Nel 1946 la Società Immobili Teatri e Cinematografi, proprietaria della maggior parte delle sale di spettacolo livornesi, incarica l’architetto Virigilio Marchi di realizzare un cinema teatro di grande capienza. Avviati nel 1948, i lavori di costruzione si concludono nel 1952: con i suoi 2500 posti il cinema Odeon – nel frattempo, a causa degli esigui mezzi economici la destinazione teatrale era decaduta – si poteva a giusto titolo definire la più grande sala cinematografica italiana. Così, proprio nel 1952, l’”Araldo dello Spettacolo” poteva lodare la giusta impostazione dei servizi e l’ampiezza inusitata dei locali accessori” che rendevano l’Odeon uno dei cinema più importanti d’Italia.

Con la costruzione dell’Odeon torna a Livorno Virgilio Marchi, protagonista di eccellenza dell’architettura futurista tra le due guerre. Marchi sapeva in quest’occasione coniugare la funzionalità dell’impianto, l’ottimo assetto acustico, con la raffinatezza della soluzioni architettoniche, particolarmente apprezzabili nel foyer ellittico. E proprio nella soluzione del vestibolo d’ingresso ritroviamo, sapientemente dispiegato, quel classicismo novecentista al quale Marchi si era avvicinato agli inizi degli anni Trenta. Ma, come abbiamo detto, non meno significative e cariche di novità appaiono le soluzioni studiate per la struttura parabolica di copertura, per l’acustica, per l’illuminotecnica.

Un’ultima notazione di carattere storico: il cinema Odeon rappresenta una testimonianza, non certo minore, per qualità di architettura, dell’impegno e dello sforzo, profuso all’indomani della fine del secondo conflitto mondiale, dalla città di Livorno nella ricostruzione del centro cittadino. Non è certo questa la sede per addentrarci in un complesso e difficile giudizio sugli esiti di tale impegno – valga per tutti il caso del Palazzo Grande – limitiamoci a sottolineare che tali architetture si offrono, oggi, alla nostra attenzione per un evidente valore storico, che è poi quello della modernità, e come tali meritano di essere non solo studiati e compresi, ma anche tutelati.
E questa nostra riflessione assume maggior forza di fronte al caso dell’Odeon, esempio non trascurabile di quella nuova tipologia costruttiva che si impone proprio nel Novecento: la sala cinematografica.

Veniamo a sapere dalle notizie di cronaca che il progetto adotatto dalla SPIL, la società che ha acquistato dai precedenti proprietari il prestigioso cinema, propone la realizzazione di un parcheggio e di un complesso commerciale, demolendo la sala e lasciando intatto il foyer d’ingresso. Non abbiamo dubbi che la previsione di tali attrezzature sia confortato da attente simulazioni sui flussi di traffico di tale area, così come da altrettanto ponderate valutazioni sulle richieste commerciali del centro cittadino.

Ma altre sono le considerazioni che ci portano inevitabilmente ad opporci con determinazione a tale sconsiderato progetto demolitorio. La prima è il carattere unitario di tale attrezzatura cinematografica: è davvero impensabile, tenuto conto delle grandi novità introdotte nella nostra cultura architettonica degli ultimi anni, che si possa credere di poter sezionare un edificio senza che questo ne comprometta inesorabilmente la sua unitarietà spaziale e formale. Immaginiamo quindi l’elegante foyer disegnato da Virgilio Marchi diventare non più filtro per gli spettatori tra la città e il mondo fantastico della celluloide, ma piuttosto triste ingresso a gallerie e rampe stradali.

E d’altra parte non ci conforta certo la prospettiva del grande parcheggio che dovrebbe sostituire il cinema: massiccia struttura in cemento armato, certamente poco adatta a confrontarsi con un contesto così carico di memorie. E infatti come dimenticare che a pochi metri di distanza si apre uno dei luoghi più ameni e ricchi di fascino della Livorno del primo Ottocento: il cimitero degli inglesi, luogo sublime, vagamente piranesiano per l’affastellarsi delle tombe centenarie, e l’antica cappella costruita da Angelo della Valle con raffinate, anche se forse di gusto un po’ retrodatato, forme neoclassiche.

Ci riesce davvero difficile immaginare come quella che un tempo era meta di viaggiatori illustri, del calibro di Charles Dickens, possa armonizzarsi con un parcheggio le cui forme sembrano richiamare certe esperienze dell’architettura brutalista degli anni ’60, o forse, in questo caso, sarebbe meglio dire “bruttalista”, per riprendere l’arguto gioco di parole dello storico canadese Peter Collins.

Torniamo dunque alle nostre considerazioni iniziali: troppi sconfortanti episodi sembrano indicare senza mezzi termini come la città di Livorno sia ormai priva di una fondata strategia rivolta a preservare il proprio patrimonio architettonico, così come ad affrontare con altrettanta consapevolezza e cultura il difficile rapporto con l’architettura della contemporaneità. Sulle pagine di questo giornale abbiamo letto autorevoli e fortemente condivisibili, interventi, a partire da quello del direttore Manfellotto, rivolti, giustamente, a stigmatizzare pesanti interventi edilizi che minacciano il nostro territorio. Credo che il destino architettonico delle nostre città sia parte della stessa questione: demolire architetture di accertato valore storico, sostituirle, all’interno di un’area fortemente connotatata culturalmente ed artisticamente, con attrezzature edilizie di così forte impatto, e di dubbia rilevanza estetica, impone percorsi amministrativi votati ad un imprenscindibile senso di responsabilità, oltre che valutazioni, sul piano della tutela e della conservazione del paesaggio urbano, di ben altra complessità e ponderatezza.

E non si invochi – noi almeno ce lo auguriamo – un presunto progetto di funzionalità urbanistica, perché tutti, o quasi, gli scempi architettonici a Livorno, come già abbiamo ampiamente indicato, si sono fondati e continuano a fondarsi – spesso con dovizia di argomentazioni speciose e prive di alcun rigore e linearità logica – su argomentazioni del tutto simili.

Dario Matteoni

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