Il progetto della bruttezza non è ineluttabile

DARIO MATTEONI
Livorno. Nel 1817 Giovanni Antolini, architetto giacobino noto per aver disegnato un grandioso progetto del Foro Bonaparte a Milano, rimasto sulla carta, visitando Livorno lamentava il disordine secondo il quale la città si andava espandendo al di fuori degli antichi bastioni buontalentiani e reclamava, con accorate parole, la necessità di un intervento dell’autorità pubblica che imponesse un disegno unitario e complessivo delle nuove espansioni.
L’accorato appello di Antolini mi è tristemente ritornato alla mente proprio in questi giorni osservando i disegni del cosiddetto nuovo centro, quell’ampia area a sud della città rimasta fino ad oggi non edificata e occupata dai grandi svincoli della tangenziale che qui si dirige verso la costa.

Non è mia intenzione in questa sede affrontare le motivazioni amministrative che hanno condotto a questo nuovo, ma non innovativo, piano di urbanizzazione: vorrei piuttosto soffermarmi sugli esiti urbanistici e architettonici delle scelte compiute, così come possiamo comprenderle dalle immagini rese note e nelle quali campeggia l’insipida sagoma di una inutilmente monumentale torre in vetro.

Una prima riflessione che nasce spontanea è la particolarità di questa area, un vero e proprio vuoto creatosi tra la città del novecento e i quartieri sorti con i piani di edilizia a partire dagli anni ‘80. Un vuoto dominato dall’ingombrante presenza, in termini visivi e funzionali, degli svincoli e del percorso della variante che seziona proprio quest’area.

Notiamo infatti che a margine di quest’area sorge un insediamento industriale ormai consolidato, l’Alenia, anch’essa una presenza funzionale e visiva certo di non poco conto. Dico questo poiché a mio giudizio proprio questi vincoli avrebbero dovuto imporre una riflessione sul piano delle trasformazioni urbane più responsabile e assai meno banale di quella che abbiamo la ventura di ritrovarci oggi sotto gli occhi.
Si è infatti preferito ricorrere ad una zonizzazione per comparto, seguendo schemi urbanistici elementari quanto desueti, distribuendo funzioni senza alcuna lungimirante strategia e ancor peggio in totale assenza di aggiornata documentazione riguardo a situazioni analoghe in Europa, limitandosi a duplicare di fatto scelte urbanistiche già compiute e archiviate.

Distribuire spazi commerciali, centri direzionali – orribile vocabolo quest’ultimo dell’urbanistica degli anni ‘70 – o ancora insediamenti residenziali, appare un esercizio del tutto avulso dal luogo: e infatti una prima domanda che sorge spontanea è a quale idea di città tutto questo corrisponda se non al criterio di riempire, in maniera indiscriminata, anzi direi senza alcuna effettiva consapevolezza architettonica, tale spazio.
Non sfugge anche all’osservatore meno avvertito che la questione relativa a quest’area è quella di un territorio abbandonato, che come tale andava recuperato nella lungimiranza di renderlo uno spazio urbano e non una sommatoria di funzioni distribuite esclusivamente sulla base di un’idea elementare e piuttosto inadeguata di città.

E credo che poco valga e ancor meno interessi a qualcuno, la puerile quanto prevedibile, e ahimè abusata, scusante, che certo potrebbe essere addotta, dell’urgenza del momento e della necessità di confrontarsi con un partner privato: è noto come la storia urbanistica europea di questi ultimi anni si è proprio confrontata con l’esigenza di riportare l’iniziativa di partners privati all’interno di principi e di linee dettati dalle pubbliche amministrazioni e in ogni caso nate da una meditata idea dello sviluppo urbano, ma tale storia urbanistica, evidentemente, non si attaglia all’attuale amministrazione.

E d’altra parte a Livorno siamo destinati a subire da decenni le conseguenze dell’applicazione di quei principi elementari di progettazione urbanistica riscontrati oggi anche per il nuovo centro: mi riferisco ai quartieri sorti in coincidenza del cavalcavia delle Terme della Salute, segnati da un edificio multipiano e dall’affollarsi di edifici residenziali; resta davvero difficile ritrovare in quel quartiere, che tra l’altro costituisce una delle entrate in Livorno, una seppure minima identità di luogo, e certo, su queste aree, incombe la presenza di un’infrastruttura, il famigerato, per indegnità, cavalcavia, che non solo ha danneggiato gravemente la dignità estetica di un prestigioso monumento del Liberty italiano, ma che incombe irreparabilmente con la sua gravosa quanto inutile presenza sull’intero quartiere.

Non dissimile ci sembra la condizione del nuovo centro, termine a mio giudizio davvero improprio, e davvero sarebbe stato auspicabile un ben altro percorso progettuale, forse affidato ad un master plan, ad un piano guida, nato forse dal confronto di più ipotesi progettuali, ma, diversamente da altre città anche vicine, la forma concorsuale con il dibattito e il confronto che ad essa conseguono, a Livorno non sembra suscitare da parte della nostra amministrazione grande interesse.
Un diverso metodo di lavoro avrebbe forse consentito una diversa consapevolezza di questo territorio abbandonato e delle possibili strategie di intervento, anche nella localizzazione di nuove e meno scontate funzioni. Ma, come scriveva Antolini, credo che questo non si farà.

Non vogliamo risparmiare poi un commento sulle possibili soluzioni architettoniche prospettate dalle immagini relative a questo progetto: tra tutte troneggia una grande torre in vetro, destinata con una niente affatto straordinaria fantasia, anzi con un’ottica decrepita e non strategica, a centro direzionale, di cui si è voluto ingenuamente magnificare la presunta modernità delle soluzioni.
Mi è capitato più volte di segnalare il difficile rapporto che, a Livorno, si è sempre consumato con i segni architettonici ispirati alla contemporaneità, troppo spesso risultato di scelte urbanistiche improvvide e avulse dal contesto cittadino nel quale sorgevano, e certamente questa è l’occasione per sottolineare che se proprio si vuole arrogarsi tale terminologia, occorre sceverarne il senso: e allora sarebbe davvero più facile coglierlo a Livorno in un monumento degli anni Sessanta, il grattacielo di Piazza Matteotti, disegnato da uno dei più grandi architetti italiani del Novecento, Giovanni Michelucci, piuttosto che nei velleitari tentativi odierni.

Ci piace fare proprio questo esempio perchè tale costruzione, a ben vedere fuori scala rispetto al contesto, e che ancora oggi domina con lo sky–line il profilo della città, rappresenta la riflessione compiuta in Italia sul tema della tipologia dei grattacieli, e non si può davvero pensare di tornare indietro rispetto a tali traguardi.
Non sfuggono a chi in questi anni ha seguito anche su giornali di eco nazionale le vicende dell’architettura contemporanea, le forti innovazioni sul piano del disegno registratesi anche nel campo delle torri che affollano i quartieri commerciali delle grandi metropoli con nuovi profili e soprattutto in omaggio all’idea di rompere la tramontata monoliticità di questa tipologia costruttiva.

Ebbene tutto questo non sembra neppur lontanamente sfiorare – non me ne voglia chi di questo progetto è autore – la nostra torre destinata a svettare impunemente sul nuovo centro, quasi a voler mimare i grandi centri commerciali di Hong Kong, piuttosto che di Dubai.

Anche qui non si può non ricordare che altre sono le strade dell’architettura contemporanea e non resta che lamentare il destino di una città che non riesce a rinnovare la sua immagine nella contemporaneità.

Dario Matteoni
Storico dell’Arte, ex assessore al Comune di Livorno

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