Il progetto della bruttezza non è ineluttabile 2

DARIO MATTEONI

Livorno. Assistiamo proprio in questi giorni al compimento di quello che a giusto titolo non può se non definirsi uno scempio: la demolizione del Cinema Odeon, un esempio di architettura cinematografica tra i più importanti della storia dell’architettura italiana del secondo dopoguerra. Di questo edificio, secondo una concezione del principio di conservazione e di tutela almeno singolare, non rimarrà se non l’elegante foyer, una sorta di frammento che non potrà se non ergersi a simbolo e monito di una furia demolitrice a molti incomprensibile.

Incomprensibile, innanzitutto, perché sostenuta da un’iniziativa di natura pubblica – come è noto il soggetto attuatore è la SPIL, una società che vede una forte presenza di soggetti pubblici, tra cui anche il Comune di Livorno, nella sua compagine societaria e la cui sigla si scioglie in Società Porto Industrale Livorno – che certo in tale sciagurata vicenda si è dimostrata ben poca attenta ad ogni possibile ipotesi di conservazione complessiva di tale manufatto.

E’ fin troppo chiaro come questa ennesima vicenda che a Livorno vede l’accanimento contro edifici dismessi di indubbio valore storico, sia in palese controtendenza con quanto accade in molti paesi europei, dove la pratica della riconversione e del riuso sono all’ordine del giorno. Colpisce, per esempio, la notizia che a Berlino la rete delle centrali di produzione e di trasformazione dell’energia elettrica realizzate a partire degli ultimi decenni dell’Ottocento diventi parte integrante di una politica di salvaguardia del patrimonio architettonico moderno.

E, come nel caso delle centrale berlinesi, anche il cinema livornese si presentava in un ottimo stato di conservazione e mostrava intatta al visitatore l’estrema cura progettuale che in esso aveva profuso il noto e prestigioso architetto Virgilio Marchi, sia nei dettagli architettonici, che nella concezione degli spazi. Tuttavia, di fronte a tale icona dell’architettura cinematrografica, è assai curioso che non si sia percorsa nessun’altra ipotesi di riuso se non quella della demolizione e della sostituzione con un anonimo, per usare un’espressione fin troppo indulgente, garage. Ed è ancora più curioso che tale ipotesi sia stata perseguita proprio da un soggetto pubblico, soggetto che per vocazione dovrebbe garantire la conservazione dei beni architettonici territoriali.

Il cinema Odeon, questo è un dato di fatto, oggi non esiste più, e poco ci consola che rimangano come uniche testimonianze i disegni di progetto depositati da Virgilio Marchi, un reportage fotografico o un video carico di nostalgia.

Siamo in qualche misura stanchi di dover ricostruire la storia dell’architettura del Novecento a Livorno attraverso il filtro delle immagini: ci era già capitato per la Villa Attias, immortalata durante la demolizione sulle lastre di un abile fotografo. E oggi dobbiamo assistere alla medesima sorte per il cinema Odeon: peccato che, essendo trascorsi diversi anni, la sensibilità culturale delle istituzioni oggi non si dimostra affatto cambiata, anzi semmai deteriorata.

E tuttavia ad un primo scempio se ne sta per aggiungere un secondo. Non è certo nostra intenzione entrare nel merito del progetto di garage che conosciamo attraverso le poche immagini pubblicate da questo giornale. Possiamo solo dire che la costruzione che si è prefigurata in questa zona è certamente insoddisfacente sul piano della foggia architettonica, se messa a confronto con il luogo dove dovrà sorgere, e fortemente invasiva per la sua massa di eccessiva pesantezza.

Eppure anche l’architettura dei garages – parcheggio ha precedenti significativi: pensiamo alla costruzione dell’architetto americano Paul Rudolph per New Haven (Connecticut), esemplare per la profonda sensibilità plastica.

Prefiguriamo allora un nuovo possibile scenario che proprio per la natura pubblica del soggetto attuatore potrebbe essere perseguito con maggiore lungimiranza e senso di responsabilità. La delicatezza del luogo carico di memorie storiche, la presenza ancora viva di una testimonianza architettonica così prestigiosa, come il vecchio cinema, imporrebbero infatti un nuovo percorso di progettazione e forse anche una maggiore levatura culturale nelle ipotesi di riuso.

E se nessuno, almeno così sembra, ha ormai la moralità per mettere in discussione l’ipotesi del garage, sulla quale presumiano si è fondata, in termini di redditività, l’operazione economica della Società livornese che in questo si è sostituita a tutti gli effetti al soggetto privato, eppure questa può forse essere mescolata anche con altre ipotesi di destinazione, come è avvenuto in anni recenti a Grenoble, dove i primi due piani dell’edificio sono adibiti a garage e la parte sovrastante è occupata dal Museo di Belle Arti della città: non ha forse Livorno finalmente bisogno di un Museo di Arte Contemporanea?

Forse per questa Amministrazione sarebbe giunto il momento di sospendere una politica edilizia finora basata su contraddizioni progettuali, scelte irrisolte, e addirittura veri e propri scempi, così da dimostrare che un pizzico di creatività e di immaginazione possono meglio sposarsi con una seria ipotesi di riuso degli spazi cittadini.

E allora si abbia il coraggio di fermare questo anonimo progetto e di aprire una consultazione, allargata agli esponenti dell’architettura contemporanea, in sostanza un concorso internazionale, così da sollecitare nuove proposte progettuali e più legittime ipotesi di destinazione, magari più rispettose di quell’idea di cultura che il manufatto di Virgilio Marchi ancora oggi ispira.

Non credo che si debba perdere anche questa occasione se è vero che ci si accinge a una fase politica innovativa e alla revisione degli strumenti del piano regolatore.

Non aggiungiamo a questa ormai innegabile sconfitta della cultura nella città di Livorno, un altro equivoco sull’effettiva incapacità delle istituzioni cittadine di promuovere un’idea adeguata di città europea.

E se l’innovazione della politica non è in grado di tradursi in scelte urbanistiche informate ai criteri di qualità e modernità, rimane solo come nomenklatura.

Dario Matteoni

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