FRANCESCA CAGIANELLI
Nel 1901 il livornese Leonetto Cappiello, affichiste tra i più noti nel mondo, interprete geniale della nuova arte pubblicitaria, disegnava il manifesto per l’estate livornese di quell’anno.
Nel manifesto di Cappiello, che si è voluto esporre quale icona dell’internazionalità labronica, nella mostra dedicata alla Belle Epoque che si svolge in questi mesi al Palazzo Roverella di Rovigo, tutto è affidato alla forza del segno e del colore, nulla è descritto, ma la comunicazione scaturisce con immediatezza attraverso suggestive allusioni: il mare è evocato dall’azzurro del fondo, il sole dal giallo delle lanterne cinesi, l’atmosfera festiva dal passo danzante della giovane donna.
Ritroviamo qui evocati con impareggiabile suggestione gli straordinari eventi di una prestigiosa Belle Epoque tutta labronica: appuntamenti balneari, rendez-vous sportivi, mondanità internazionale, balli popolari eventi espositivi e manifestazioni teatrali.
Il manifesto di Leonetto Cappiello ben rappresenta le potenzialità comunicative della nuova arte della pubblicità: la sua audacia linguistica, la sua geniale sinteticità risultano facilmente decodificabili, leggibili con segni noti, universalmente comprensibili, tali da suggerire lo spirito del luogo, in questo caso la Livorno di inizio Novecento.
Si tratta perciò di un prodotto perfettamente corrispondente alle fantasmagorie di un’estate di divertimenti e di novità, quale certamente si poteva vivere nel 1901, capace di rappresentare agli occhi dello spettatore la modernità e il fascino del luogo.
È difficile non rimpiangere l’affiche di Cappiello di fronte alla proposta che l’attuale amministrazione sciorina oggi, così come si legge nell’articolo apparso sul Tirreno del 23 aprile 2008 – proposta che si riduce “un segno che faccia pensare al classico dé livornese ma anche ad altre caratteristiche della città”: una domanda nasce spontanea: ma quali, davvero strategiche e attuali per l’immagine futura della città?
È davvero possibile che tali caratteristiche siano oggi riassumibili nel “classico dé”?; e ancora, quanto questo lessico cittadino, pur proverbiale e caratteristico, può effettivamente divulgare un’immagine davvero recepibile da un contesto più ampio, non dico internazionale, e neppure nazionale, ma almeno regionale?.
E allora, sempre per procedere nella lettura delle dichiarazioni esternate in quest’occasione anche da parte delle istituzioni livornesi, siamo davvero stupiti dall’apprendere che si dovrebbe leggere questo “classico dè” come “un gioco di parole per dare un segnale di livornesità che non è frusto, ma ricco di promesse”: quali promesse?
Si tratta di una cultura che retrocede ancora una volta ad un registro vernacolare, che, per quanto comprensibile, non offre, ahimè, alcuna traccia di volontà innovativa, e che giustifica quindi tanti mancati appuntamenti con un confronto di ambito territoriale più vasto.
Si badi bene che non interessa in questa sede tornare alla desueta e abusata storiella della specificità labronica, che tante polemiche anche in tempi recenti, ha continuato a destare, ma occorre finalmente trasmettere un messaggio a quelle istituzioni che ancora intenderebbero solleticare certo autocompiacimento labronico: si dovrebbe cioè capire che i livornesi forse non sono più interessati semplicemente a riconoscersi nel “classico dè”, ma in una specificità culturale che ha certamente qualcosa di più classico e di più esteso: e in particolare una vocazione popolare di immediatezza vitale che d’ora in avanti può e deve concretarsi in una rinnovata tensione culturale, anche nell’orgoglio di una propria identità culturale cui certamente concorre anche la stratificazione storica di un idioma cittadino, non ridotto però a formula macchiettistica di facile consumo per un turismo distratto che di questa città vuole cogliere solo gli aspetti ingenuamente vernacolari.
L’appuntamento con l’innovazione non può certamente più essere eluso, neppure nell’occasione di un’invenzione grafica, proprio perché la grafica oggi riveste un ruolo dominante, veicolo di modernità e di crescita culturale. Insegni proprio la modernità e l’universalità del messaggio che Cappiello affidava al suo manifesto ad un tempo raffinato e popolare, di immediata comprensione e tale da evocare la bellezza di una città e suscitare le attese di un turismo in quegli anni appena agli esordi.
Si vorrebbe quindi rispondere a tale riduttiva rilettura della specificità labronica in occasione di questa Estate Livornese, che non basta “impacchettare”, come invece è stato detto, la cultura estiva livornese in una formula, soprattutto se quest’ultima si presenta ormai priva di frizzante novità, ma che bisogna liberare tale cultura da qualsiasi formula: si provi quindi finalmente a trovare nuovi simboli!.